Macchine musicali
Normalmente la musica viene definita come una performing art, ovvero un’arte che, come il teatro e la danza, si svolge attraverso un movimento nel tempo. In realtà, fin dai tempi antichi, essa è anche il frutto del movimento di una macchina nella quale l’uomo svolge il semplice ruolo di ‘operatore’.
Già nel primo secolo avanti Cristo, infatti, Erone di Alessandria realizzò i primi meccanismi musicali: oltre ad inventare il tasto per strumenti a corda – ripreso poi nel 1700 con il pianoforte – ideò un uccellino impagliato che, mosso da un meccanismo a distanza, emetteva un cinguettio. Al tempo era un espediente usato da alcuni sacerdoti per convincere il pubblico dei loro oracoli.
Da allora gli strumenti meccanici si sono fatti sempre più complessi: a partire dal funzionamento di un semplice carillon si arrivò fino a veri e propri strumenti a tastiera azionati da una manovella o da un mantice. In queste macchine molto ingegnose, la musica era contenuta in una scheda perforata, del tutto simile a quelle che in seguito si utilizzarono per dare vita ai primi computer. Musica e matematica sono sempre andate d’accordo.
Un punto di svolta si ebbe quando, con un meccanismo a molla simile a quello degli orologi, le macchine musicali divennero automatiche. Non serviva più che qualcuno girasse una manovella, facevano musica da sole! Un esempio ne è il grammofono. Con l’avvento poi dell’elettricità e della radio si ebbe un ulteriore diffusione della musica portatile e quanto avviene oggi, nell’era digitale, è sotto gli occhi, o meglio nelle orecchie, di tutti.
Queste macchine rispondevano, allora come oggi, ad un bisogno pratico: quello di portare il concerto in casa, senza la necessità di pagare degli strumentisti ogni volta che si voleva ascoltare della musica. Nel tempo le soluzioni adottate si sono fatte sempre più efficaci, permettendo a chiunque di portare con sé sempre più musica in uno spazio sempre più ridotto.
Musicisti e Operatori
Fortunatamente la musica dal vivo esercita ancora un fascino irrinunciabile: vedere le dita, il sudore, il volto di un musicista che esprime la sua maestria e la sua creatività proprio in quel preciso momento, proprio lì, davanti a noi, mentre condividiamo quest’esperienza assieme ad altre mille persone, è uno spettacolo emozionante; e tuttavia la distinzione tra musica dal vivo e musica registrata è sempre più ineffabile.
Da un lato vi sono alcuni musicisti che ritengono che la musica registrata vada eseguita in studio proprio come si fa dal vivo: tutti assieme e in un unico momento, senza possibilità di errore. Una cosa da veri uomini. Dall’altro alcuni deejay intendono il live come un modo per far sentire le proprie creazioni musicali al pubblico, riproducendole automaticamente con un computer, senza necessariamente modificarle dal vivo.
Allo stesso tempo vi sono musicisti che usano ampiamente le nuove tecnologie, sovraincidendo e correggendo a posteriori le proprie registrazioni, così come deejay che creano la musica ex-novo di sera in sera, improvvisando davvero.
Insomma tutto e il contrario di tutto si chiama in entrambi i modi: musica dal vivo e musica registrata.
E cosa dovremmo pensare delle registrazioni fatte e riprodotte dal vivo, davanti ad un pubblico? In gergo si chiamano loops e se un tempo ci si arrangiava con un paio di secondi – come dimostrò un memorabile Jaco Pastorius nei concerti con Joni Mitchell – oggi si può arrivare a registrare anche per due minuti e improvvisare poi sopra la stessa registrazione. Io l’ho fatto spesso.
E i suoni delle tastiere? Molti di essi sono stati registrati prima ancora che la tastiera fosse realizzata e venduta. Si chiamano campionamenti ed oggi sono anche molto articolati e complessi, frutto di ore ed ore di lavoro in studio di registrazione da parte di ingegneri del suono. Siamo sicuri che chi suona una tastiera dal vivo stia davvero suonando dal vivo? E chi suona un disco di vinile come un vero strumento musicale e ne è un virtuoso, sta suonando musica registrata o no?
E’ tutto molto, molto sfumato, fortunatamente.
Certo, fa un po’ impressione sentire un deejay che dice ‘vado a suonare’. Un po’ come se un montatore di spezzoni di film, pur molto creativo, la sera della sua proiezione dicesse ‘vado a recitare’. E’ strano, no? Ma le parole mutano di significato nel tempo e può darsi che un giorno la parola ‘suonare’ arriverà a significare anche solo schiacciare il pulsante ‘play’. Appunto.
Tuttavia non sarà più chiaro se il soggetto di questo verbo sarà uno strumentista oppure un semplice operatore. D’altra parte già oggi il pubblico meno smaliziato non è in grado di comprenderlo.
Ma non ha importanza, purché si tratti di arte. Un capolavoro, sia esso suonato dal vivo o registrato, è sempre opera di un musicista e questo è quello che conta. E’ tempo di liberare definitivamente la musica dalla necessità di essere classificata in uno o nell’altro modo.
La Scatola
In fondo si tratta solo di scegliere il contenitore giusto. Evidentemente pagare un biglietto per entrare in un teatro pieno di gente e vedere un compositore che schiaccia ‘play’ su un lettore CD contenente la sua musica, non è per nulla soddisfacente. Il pubblico di un teatro esige una performance. Uno spettacolo onesto e senza sotterfugi o imbrogli (come il playback).
Al contrario, il pubblico di una discoteca si aspetta che la musica sia piena di groove e faccia ballare, se poi il deejay sta improvvisando ogni cosa o ha preparato tutto nel suo studio e ha solo schiacciato ‘play’ interessa solo ai puristi.
Infine, in un museo, dove generalmente ci si aspetta di vedere oggetti o macchine automatiche, un lettore CD, anche azionato da un custode, va benissimo.
Musei di Musica
Chi fa parte della generazione che mi ha preceduto, mi racconta spesso del piacere che provava quando si trovava con alcuni amici solo per ascoltare musica. Se ne stavano assorti, in silenzio, in una stanza. Ad ascoltare musica. Roba d’altri tempi!
Forse oggi manca proprio questo: la performance della non performance ovvero l’ascolto collettivo di musica registrata. Ecco perché mi piacerebbe un giorno entrare in quello che chiamerei un museo della musica. Ecco come me lo immagino.
In ogni sala si accederà da un’anticamera che verrà chiusa, rimanendo totalmente buia. Solo a quel punto gli spettatori, a piccoli gruppi, saranno accompagnati da guide esperte nel buio totale della sala espositiva, della quale non vedranno mai nulla: essa sarà una stanza vissuta, ma rimarrà solo immaginata. Si siederanno su qualche decina di sedie, ascolteranno nel buio più totale i brani musicali tratti dall’opera di qualche musicista in mostra e, al termine, riaccompagnati all’esterno, potranno continuare gli ascolti in altre sale analoghe.
Mi è già capitato qualcosa di molto simile: quando ho suonato nella sede di Trento dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti. È andata proprio così, ma il concerto era dal vivo ed io ho suonato nel buio più assoluto per un’ora e mezza davanti ad un centinaio di persone.
Certo, il buio è fatale per chi ha avuto una giornata pesante e ha un po’ di sonno, ma c’è il vantaggio di dormire impunemente se il concerto è noioso! Ovvio, farebbe paura ai bambini e di certo le coppiette si distrarrebbero molto…
Ma quella sera, quando tutti abbiamo spento gli occhi, qualcosa si è acceso nell’anima di qualcuno. Al buio eravamo tutti uguali, tutti un po’ disorientati, un po’ vulnerabili. E la musica ci ha portati nella nostra quinta dimensione, quella spirituale. La musica è astratta ed ha questo potere di spingerci fuori di noi. Chissà come sarebbe il mondo se fuori dai musei di musica ci fosse sempre la fila, se tutti noi fossimo abituati a chiudere gli occhi e la bocca per ascoltare la musica, insieme.