Da un po’ di tempo a questa parte ho ripreso a scrivere a mano; intendo, scrivere parecchio a mano, non solo qualche appunto. Una sorta di nostalgia della materia, in questo mondo sempre più digitale. All’inizio si è trattato di un gioco e di un po’ di curiosità: ho imparato finalmente a scrivere in stampato minuscolo e a fare le maiuscole con le grazie (quelle che in inglese si chiamano serif). Poi, quando le pagine si sono accumulate, è cominciato ad affiorare un significato molto più profondo. Il valore della lentezza.
Questo è stato l’argomento di uno dei lunghi viaggi verso Zurigo che io e il mio amico e fratello Ivan Tibolla, eccellente pianista e flautista compiamo di tanto in tanto, alla volta dei concerti con il nonetto e il quartetto di Marco Santilli, visionario e iper-creativo clarinettista svizzero.
Poche cose sono belle come quei lunghi viaggi in automobile, nei quali ci inerpichiamo con tutta lentezza sui sentieri abbastanza inutili dei nostri pensieri. Eccone allora qui un resoconto.
“Capire non è fare“
Tutto nasce da una frase di Luigi Tito, straordinario pittore veneto, il quale diceva “Guardare non è vedere, vedere non è capire, capire non è fare” distinguendo così vari gradi di profondità nell’esperienza visiva. Potremmo tradurre in musica la stessa frase in questo modo: “Sentire non è ascoltare, ascoltare non è capire, capire non è fare“.
Magari può sembrare complicato, ma non lo è. In fondo abbiamo solo tre sensi: la vista, l’udito e il tatto. I primi due percepiscono frequenze, vibrazioni – luminose o acustiche – e sono sensi che arrivano lontano. Certamente il più potente tra essi è la vista, con la quale in una giornata tersa arriviamo a vedere perfino le cime delle montagne più distanti, ma anche l’udito può cogliere eventi relativamente lontani da noi. Al contrario il tatto – sia quello vero e proprio, che il gusto o l’olfatto – necessita di un contatto ravvicinato con la materia.
E’ un dato di fatto che più potente è il senso, minore è il coinvolgimento del soggetto: se vedo un pianista suonare ricevo così tanto che in fondo non mi resta che godermelo. Se invece ascolto un brano per piano, magari da un vecchio vinile, mi viene richiesto uno sforzo di astrazione, uno sforzo creativo per trasformare ciò che ascolto in un’esperienza per me significativa. Ma evidentemente l’esperienza più coinvolgente è suonare quel brano, ovvero usare il tatto. Non ti sto qui proponendo di leccare o annusare i tasti di un pianoforte, ma se vuoi un esempio più chiaro, pensa alla persona che ami e alla differenza che passa tra vederla, magari da lontano, ascoltarla oppure accarezzarla: ecco, la musica è uguale.
Ma passare dall’ascoltare – o dal vedere – al fare richiede tempo. Molto tempo. Un’immensa, smisurata quantità di tempo. Ed è qui che entra in gioco il valore della lentezza e il mio stupido scrivere a mano.
L’Amore per la Lentezza
Quando penso, le mie idee sono come vapore, quando parlo diventano liquide e quando le scrivo diventano solide. Se poi le scrivo a mano, molto più lentamente, diventano molto più solide.
La lentezza è indispensabile per passare dal capire al fare, ma spesso si considera ben speso solo il tempo necessario per capire. E’ un finto criterio di efficienza, molto diffuso e sfruttato tra l’altro da alcuni personaggi che promettono in brevissimo tempo di acquisire e realizzare infinite cose nei campi più disparati.
Credo invece che il tempo per fare sia ben speso soprattutto perché è lento. Perché l’esperienza si stratifica lentamente, i concetti necessitano di un tempo naturale per sedimentarsi, per essere non solo memorizzati, ma vissuti, per trasformarsi in azioni realmente efficaci.
Poi, di tanto in tanto, e all’improvviso, magari dopo lunghi periodi di apparente immobilità, la qualità delle nostre azioni subisce una spinta verso l’alto, come un ‘clic‘, un salto quantico, una diga che trabocca. Questa è ciò che io percepisco essere l’esperienza della crescita e trovo sia alla base di quasi ogni cosa che è bella ed ha valore, dal suonare uno strumento musicale al fare il pane (cosa nella quale mi sto esercitando con grandiosi insuccessi).
Ci vuole tempo. E bisognerebbe forse ritrovare un vero amore per la lentezza, perché trasforma delle semplici conoscenze in esperienze ed oggetti concreti.
Tutti i Punti del Cerchio
Questo vale anche per l’insegnamento. Supponiamo che la musica sia un cerchio e che un buon musicista sia quello che sa muoversi liberamente dentro questo cerchio. L’approccio della didattica tradizionale è verticale, lineare. Si propone di far conoscere ogni punto di questo cerchio passandoci sopra una sola volta, in maniera logica e sequenziale: quindi, partendo da un punto sulla circonferenza, compie un percorso a spirale fino a terminare nel centro, esaurendo così ogni possibile argomento nel minor tempo con un’apparente massima efficacia.
Al contrario un percorso che potremmo definire olistico o non lineare, si propone di passare da un punto all’altro in maniera più casuale, apparentemente inefficace e ridondante.
I vantaggi di questo secondo metodo sono numerosi, ma tre sono i più importanti:
– innanzitutto, non essendo direttamente collegato alla parte razionale, attinge alla sfera emotiva, intuitiva, istintiva, creativa e spirituale dell’individuo, fornendogli una formidabile spinta propulsiva nel suo desiderio di apprendere.
– Inoltre, la ridondanza dei collegamenti – sebbene più fragili, incerti e imperfetti rispetto a quelli che si pongono in un percorso lineare – crea un tessuto più solido nella conoscenza, trasformandola in memoria e quindi in azione. Ogni collegamento è più fragile, ma la tessitura globale è molto più solida.
– Infine il percorso olistico comprende quello lineare, in quanto tra tutti i collegamenti sequenziali possibili esiste anche quello lineare, ovvero la spirale di cui ho scritto sopra. E’ quindi possibile un’armonizzazione dei due percorsi a partire da quello olistico, mentre non è possibile il contrario.
Ovviamente un programma di studi impostato in questo modo, oltre a creare un forte senso di ansia negli allievi più razionali, può trasformare il percorso che tradizionalmente si svolge in un solo anno in un programma di cinque anni, ad esempio. Ma trasforma anche le conoscenze in azioni reali, e credo fermamente che, almeno per un insegnante di musica, lo scopo sia quello di insegnare a fare, più che di insegnare a conoscere.
Trovare Tempo
Molti studenti si rattristano quando realizzano l’immensa quantità di tempo necessaria per raggiungere il risultato che si sono prefissati. Quasi sempre non hanno idea di quante ore il loro insegnante abbia trascorso nel trasformare un semplice concetto, spiegato e compreso in pochi minuti, in una solida pratica: quasi sempre ha impiegato tutta la vita. Non se ne rendono conto ed è del tutto naturale. Quando infine aprono la finestra su quello sterminato territorio fatto di ore ed ore di pratica si demoralizzano e purtroppo, talvolta, abbandonano.
Generalmente questo accade perché la causa del loro studio della musica è un fattore esterno (gratificazione sociale, economica, etc.) oppure è poco profonda (divertimento, relax, etc.), soccombono quindi davanti alla mancanza di tempo determinata dalla loro disorganizzazione o dalla pigrizia. Questo può suonare un po’ antipatico ma basti pensare al tempo che molti spendono davanti a tv e cellulari.
Al contrario, chi di loro ha una spinta interiore, che potremmo definire una forza spirituale di avanzamento, riesce effettivamente a liberare il proprio tempo, trasformandolo in un territorio per esperienze incredibilmente lente ma portatrici di vera felicità. Il valore della musica è tutto lì.